21 Mar GenerAction People
“Un vecchio e un bambino si preser per mano… e andarono insieme incontro alla sera…“. I Nomadi la cantavano così l’inclusione tra le diverse generazioni.
Come far dialogare l’esperienza di chi ha fatto tanta strada con il senso di scoperta di chi la strada se la deve costruire? E’ una questione di cui oggi è di moda parlare nelle aziende italiane: oltre ad essere un’esigenza oggettiva, dovuta alla convivenza tra almeno tre, se non quattro, generazioni al lavoro, si tratta anche un trend culturale.
Diverse case history d’oltreoceano ci indicano una strada che nel loro altrove è risultata vincente: la sinergia fra le età può generare inclusione. Dato che l’inclusione genera innovazione (…e questo è dimostrato), il sillogismo è presto fatto: la sinergia fra le diverse età in azienda può generare innovazione.
A parole sembra semplice, nella realtà dei fatti no. In molteplici modelli organizzativi di casa nostra, sono ancora diffusissimi stereotipi generazionali molto difficili da abbattere. Io ne so qualcosa.
Di professione sono un’imprenditrice-consulente. Di età sono between, ho appena compiuto 35 anni. Di aspetto (dicono) sembro più giovane di quello che in realtà sono. Risultato? Fatica, fatica e fatica… per farmi strada in un mondo fatto di portatori sani di esperienza. Diverse volte ho desiderato avere qualche ruga in più, accompagnata da qualche capello bianco ben evidente. Eppure, paradossalmente, ho fatto scivolare anch’io delle occasioni, dubitando io per prima sul mio livello di esperienza. Sarà sufficiente? Mi sono chiesta più volte. Sembrerò una giovane rampante e ambiziosa che vuol prendere il posto di qualcuno? Incredibile, la conseguenza più subdola di uno stereotipo è che le vittime iniziano a comportarsi in coerenza con esso: una sorta di profezia che si auto-avvera.
Ma questa è solo un lato della medaglia. In aula, spesso, sento storie dei famosi “over” (…che brutta espressione, ma nel linguaggio generazionale, non si è trovato ancora un termine più efficace), davvero raccapriccianti: abbandoni organizzativi subdoli e mal celati, coinvolgimento in azioni di ri-motivazione che partono da un presupposto diffuso per cui la motivazione a quanto pare sia giovane. Niente di più falso! Il fatto, ad esempio, che la maggior parte degli start-upper americani siano over 45 ne è una delle infinite dimostrazioni. D’altro canto, alla fine di quelle aule, il commento finale in genere è… “però, giovane, ma brava…”. Come volevasi dimostrare…
Gli stereotipi fanno male a chi li crea e a chi li subisce. Nel mio girovagare osservante e curioso all’interno delle realtà organizzative vedo però anche altro: vedo relazioni inter-generazionali che funzionano, vedo giovani che fanno da coach ai meno giovani sulle competenze digitali, ad esempio, e senior che si sentono tanto valorizzati nel ruolo di mentor verso i neo-assunti, da far commuovere.
Il mio vissuto generazionale mi ha portato e mi sta portando ancora ed essere la più giovane in diverse situazioni e contesti: solo da pochissimo, ho imparato a considerare questo come un possibile punto di vantaggio, certo, da calibrare con un gran rispetto per chi ne ha viste e ne sa più di me.
Ed è per questo che, dopo qualche risultato incoraggiante, ho deciso di studiare il s-age management. Come si fa a promuovere con saggezza la convivenza tra le generazioni? In altre parole, quali azioni possono favorire all’interno delle aziende l’inclusione reciproca fra persone di età diverse? E quali risultati in termini di innovazione, macro e micro, si possono ottenere?
Nei prossimi post del martedì, vi parlerò di un progetto-laboratorio a cui tengo molto, GenerAction.
A presto!