11 Nov Parole manomesse – #responsabilità
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Responsabilità. In altri termini, una patata bollente.
Che lo vogliamo o no, siamo continuamente chiamati alla responsabilità: nei nostri comportamenti quotidiani, sul lavoro, nelle relazioni, quando facciamo scelte politiche. Gli esponenziali progressi scientifici e tecnologici modificano profondamente il nostro rapporto con la natura, e la realtà virtualizzata in cui viviamo ci trova spesso impreparati di fronte a nuove, impreviste, superumane responsabilità.
Biografia di un parola
Le parole hanno UNA storia. E riflettono anche LA storia della società, dei cambiamenti culturali e dei costumi.
La biografia del termine responsabilità è relativamente breve, può essere condensata negli ultimi due secoli e mezzo. Si tratta quindi di un concetto squisitamente moderno, ma che nella sua pur breve e recente vita ha subito metamorfosi profonde.
L’uso della parola responsabilità, in senso giuridico e giuridico-politico, si incontra per la prima volta nel 1787, in The Federalist di Alexander Hamilton, nel Dictionaire de l’Académie francaise del 1798 e nel codice napoleonico, indicando l’obbligo di rispondere delle proprie azioni dinanzi alla legge.
In italiano, il Dizionario Battaglia segnala tra i primi a utilizzare l’aggettivo risponsabile, Ferdinando Galiani, nel suo De’ doveri de’ pricipi neutrali verso i principi guerreggianti e di questi verso i neutrali, e siamo nel 1782.
La parola responsabilità assume poi nel tempo tali e tante dimensioni, trasformazioni e stratificazioni di senso, da diventare una possibile chiave di lettura della storia del pensiero moderno. Non è questa la sede in cui mettere a confronto i vari paradigmi che si sono configurati, raccontando storie diverse del concetto di responsabilità. Ai fini del mio discorso, interessa solo assumere che le figure e le forme che nella storia definiscono la responsabilità, ne comunicano tutta l’ambivalenza e la polivalenza.
Saper rispondere
Se è vero che il significato di responsabilità cambia in funzione del contesto in cui viene utilizzato, nel suo senso più immediato e letterale, significa acquisizione di un’abilità nel rispondere. Già nella sua etimologia, infatti, la radice fa riferimento al verbo respondeo, che mostra chiaramente l’idea di risposta.
Essere responsabili significa rispondere a, rispondere all’appello che viene da una situazione, dal tempo che si vive, dalla storia, rispondere in ordine a qualcosa, ma soprattutto è rispondere a qualcuno e più ancora rispondere di qualcuno, tanto che si potrebbe affermare che senza riferimento all’altro non c’è responsabilità.
Quando Jacques Derrida parla di grammatica della risposta, nel riferirsi alla natura relazionale della responsabilità, distingue tre diverse modalità del rispondere: rispondere di, rispondere a, e rispondere davanti a. Si risponde di sé o di qualcosa, davanti a e si risponde sempre a qualcuno.
Libertà-e-responsabilità
La natura intrinsecamente relazionale della parola responsabilità, non elude tuttavia il legame imprenscindibile con l’idea di libertà. Si genera dunque un movimento circolare tra libertà-e-responsabilità, in cui sono coinvolti concetti e parole fondamentali della vita personale come scelta, decisione, volontà, che generano riflessi anche sulla vita sociale.
Quando Heidegger conia la famosa espressione essere gettati nella libertà, intende descrivere proprio la nuova qualità dell’uomo moderno e il suo smarrimento di fronte all’ambiguità generata dalla coincidenza, nel concetto di responsabilità, degli opposti libertà/legame, autonomia/ relazione, potere/limite. D’altra parte la nascita dell’individuo moderno, risiede proprio in questo presupposto storico-teorico: la possibilità di aspirare all’autonomia, di destinare se stessi e di costruire la propria identità, la facoltà di scegliere, di costruirsi e diventare decisores creando il proprio destino, costruendolo attraverso le risposte date anche – e soprattutto – agli altri.
La grande fuga
A dispetto, però, di questa chiamata a rispondere, è dell’individuo postmoderno la diffusa e silenziosa indifferenza verso gli altri e verso il bene comune, la reticenza ad assumere l’impegno, la fuga dalla responsabilità, quasi fosse un rischio o una minaccia da evitare. Insomma, una patata bollente.
Scaricata, rimbalzata, palleggiata… Che cosa è accaduto alla responsabilità? Siamo davvero al suo crepuscolo?
Foucault l’ha chiamata morte dell’uomo, altri si sono limitati a parlare di fine della ragione o di fine del soggetto. L’uomo postmoderno è decentrato, debole, ha ragioni evanescenti. La sua debolezza nasce proprio dal fatto che nell’attuale prospettiva etica la responsabilità non può più essere concepita in termini metafisici o ontologici, non è più data per natura nell’essenza umana, ma va in qualche modo costruita e scelta: si sceglie, si decide di essere responsabili. Non è facile assumere la responsabilità sotto una categoria determinata e dire se sia solo un valore, un sentimento, un atteggiamento, una capacità, un progetto o tutto questo insieme.
L’individuo postmoderno deve comunque fare da solo. Deve assumersi – appunto – la responsabilità radicale di fronte a se stesso, sia in campo morale che in campo politico, senza più la rete di sicurezza di una dottrina. Deve gestire una libertà molto pesante, perché non ha più a disposizione un’ideale univoco e razionale con il quale confrontarsi.
Le parole fanno le cose
Il linguista John L. Austin suggerisce che le parole fanno le cose. Le parole sono dunque atti, e come tali hanno delle conseguenze che occorre saper fronteggiare. Le parole creano la realtà, fanno e disfano le cose, pertanto occorre essere consapevoli dei sistemi che sottendono al loro funzionamento, così come dei motivi che ne causano il deterioramento.
Quando nel tempo con l’uso, una parola sembra perdere il suo peso specifico, vuol dire che qualcosa nei suoi complessi meccanismi di funzionamento, è degenerato.
La manomissione delle parole
Per poter continuare ad usare le parole svuotate dal tempo, dobbiamo prima restituire loro il senso originale, la nativa consistenza. Per questa ragione, dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.
Chiamiamo manomissione questa operazione di rottura e ricostruzione. La parola manomissione ha due significati, in apparenza molto diversi. Nel primo significato è sinonimo di alterazione, violazione, danneggiamento. Nel secondo, che discende direttamente dall’antico diritto romano (manomissione era la cerimonia con cui uno schiavo veniva liberato), essa è sinonimo di liberazione, riscatto, emancipazione. Noi facciamo a pezzi le parole e poi le rimontiamo. Come le metafore di Lakoff le parole così smontate e rimontate possono darci nuova comprensione della nostra esperienza, possono dare un senso nuovo al nostro passato, al presente e al futuro a quello che sappiamo.
La crisi non è contrassegnata quindi soltanto dal negativo, dal disordine.
Dopo aver smontato la parola responsabilità, abbiamo liberato una tensione volta a trovare nuovi equilibri, nuovi ordini. Le contraddizioni hanno trovato così una sintesi rassicurante, e la trasformazione adesso può trovare la sua sede naturale nell’etica, nella responsabilità verso gli altri, nell’uscita da un paradigma egoistico di pensiero, nella tolleranza come atteggiamento dominante e nel rispetto delle differenze: non più, dunque, un’ideologia omologante, ma l’accoglimento delle diversità e delle molteplicità.
L’esercizio di manomissione delle parole è rigenerante, non solo per le parole, ma anche per il nostro pensiero. Libera gli opposti e li rende di nuovo capaci di associarsi in modo creativo e attuale.
Le parole sono molecole. Non patate bollenti 😉